La Storia di Margherita – Margherita’s Story
7 Aug, 2024
Margherita, 42 anni, ragioniera, lavorava in un negozio di arredamenti industriali. Ha smesso quando è arrivato Peppone, suo figlio, che lei racconta così: Peppone è bello come il sole, è pacioccoso. Non trovo le parole giuste per descriverlo perché è troppo, è tanto. Non parla, non cammina, ma che fa? Solo a guardarti con quegli occhioni meravigliosi ti riempie. I suoi silenzi sono imparagonabili, spettacolari. Sono tutto.
Peppone, Alfredo, Teresa
Margherita vive con la sua famiglia a Casal di Principe, in provincia di Caserta. Sono in quattro e completa così la descrizione della sua famiglia: oltre a Peppone, c’è mio marito Alfredo, meraviglioso e comprensivo, siamo due poli opposti che combaciano in modo perfetto. Poi c’è Teresa, 12 anni, più grande di Peppone. E lei è un altro dono meraviglioso. A volte le ragazzine di oggi pensano al telefonino, alla magliettina firmata, alla gita, all’amichetta. Lei al contrario pensa alla mamma, al papà e, in primis, al fratellino. Viviamo tutti meravigliosamente insieme.
La malattia di Peppone
È nato sanissimo e cresceva regolarmente. È cominciato tutto quando aveva tre mesi, con un’ipotonia del collo e allora sono andata dal fisiatra e ho chiesto come mai il bambino non riusciva a reggere il capo. Lui mi dice: “È ancora presto. Maturerà pian piano”.
Quindi la nostra vita continua anche se lui ancora non regge il capo e ogni tanto fa dei gesti strani col polsino, con una manina. Improvvisamente, a sei mesi, Peppone ha la febbre a 40 e una crisi di epilessia. Da quel momento è iniziata la nostra odissea. Ricovero d’urgenza a Siena, poi biopsia muscolare, poi risonanza magnetica con contrasto, poi tutte le altre cose che ne sono susseguite ed è venuto fuori questo bellissimo regalo, la malattia mitocondriale. Peppone a ottobre compirà 10 anni ed è un grandissimo miracolo perché ha affrontato di tutto. Infatti all’ospedale Bambino Gesù di Roma lo chiamano “Highlander”.
Come spiegheresti una malattia mitocondriale?
La malattia mitocondriale è un animale. Ti porta via pian piano qualcosa ogni giorno e tu fatichi a combattere, a cercare di capire e poi, la maggior parte delle volte, ti toglie tutto perché è lei che vince. Il mio bambino è come se fosse intrappolato nel suo corpicino e vuole dire, vuole comunicare, ma questa bruttissima mancanza di energia non fa fare nulla. Quindi cerchi di capire, cerchi di interpretare anche un movimento del sopracciglio e ti chiedi: “Mi sta dicendo qualche cosa?”. È un mostro cattivo, infame, che ti toglie tutto e spero che prima o poi la ricerca riesca a fare qualcosa, perché ti devasta. In tutti i sensi.
Ogni giorno
Di notte non si dorme perché Peppone è abbastanza sveglio. Poi alle 6 si parte con la colazione, che è abbastanza lunga perché non digerisce e quindi utilizziamo la PEG. Verso le 9,30 arriva la terapista per la ginnastica respiratoria e motoria e poi il rianimatore con l’infermiera per un controllo. L’alimentazione viene fatta o con pompa che gli porta la pappina direttamente nel pancino, o con le siringhe, dipende da come sta lui e come riesce a digerire.
La cosa più difficile nel rapporto con tuo figlio
Forse mi colpevolizzo su alcune cose. A volte ti vengono quei momenti in cui dici: “sto facendo tutto? Lo sto facendo nel modo giusto? Posso fare qualcosa in più? Gli devo dare qualcosa in più?”
Cosa hai scoperto della vita con l’arrivo della malattia?
Ho conosciuto tante famiglie, tante realtà, tante persone, altre realtà ospedaliere, altri medici, altri confronti. E penso sia una cosa positiva perché comunque noi abitiamo qua, a 45 minuti da Napoli, e quindi ogni volta che Peppone è in difficoltà, dobbiamo rivolgerci a strutture fuori la Campania. E poi prima ogni piccola stupidaggine sembrava insormontabile, invece adesso no, ti godi la vita ogni minuto, ogni istante, perché tanto è inutile correre, aspettarsi chissà che. Non vale la pena. Devi viverti quella che hai, perché se ti metti a pensare ti perdi pure quello di bello che hai ora.
Dove ti rifugi per stare meglio?
Non ne sento la necessità. Per me il mio rifugio è Peppone. Se sto male, se non mi sento bene, se c’è un pensiero, se c’è una cosa che non va, mi basta prenderlo in braccio e mi cura. È lui il posto migliore.
Se non ci fosse Mitocon?
Sarei in difficoltà serie. Agli inizi ho conosciuto alcune mamme madri di altri bambini come il mio. Loro sono state il mio coraggio e mi hanno fatto evitare ciò che purtroppo i loro bimbi non hanno evitato perché erano agli esordi. Il mio bambino è stato fortunato perché loro mi dicevano: “attenta a questo, attenta a quello, non dargli quello, forse prova quell’altro”. Mitocon è una famiglia immensa. Piero, il presidente, è una persona fantastica e quando ti devi sfogare lui sta lì e ti ascolta. E se sta male Peppone, ci chiamano tutti per avere notizie.
Mi ha aiutato l’esperienza degli altri, la loro vicinanza, il conforto, il loro starmi vicino anche da lontano. All’inizio pensavo mi stesse crollando il mondo addosso e dicevo: “Adesso che faccio? Mi lancio dal balcone? Ho un’altra bambina, una famiglia. Che devo fare?” E poi vedendo loro ti rimbocchi le maniche: loro ce la fanno, perché non dovrei io? Grazie Mitocon.
Cosa diresti a chi non conosce il mondo delle malattie rare?
Fin quando hai una malattia conosciuta ti curi e affronti un percorso difficile. Con la famiglia, con tutti. Il problema di una malattia rara è che non c’è cura, non c’è niente. Devi lottare con le unghie e con i denti, ma per arrivare dove? Penso che ci sia sempre speranza, c’è sempre qualcosa da fare e arrendersi assolutissimamente mai. Se hai una malattia rara devi abituarti a combattere con un mostro che ti attacca 24 ore su 24. È difficile far capire, potrei dire: “venite a casa mia una giornata e la vivete con me.”
Una famiglia normale
Quelli con una famiglia normale sono più poveri di noi. Noi siamo tanto ricchi. Peppone mi riempie la vita in tutti i sensi, mi fa capire il bisogno di amore, l’umiltà di affrontare le cose. La cosa fondamentale è l’unione. Lui ci ha unito in un modo che non si può capire.
Cosa volevi diventare da grande?
Crocerossina. Vicino casa mia c’erano due bambini con la sindrome di Down e io ero innamoratissima di loro. Appena uscivo dovevo assolutamente citofonare loro per farli affacciare. Li adoravo e loro, per fortuna, adoravano me. È come se fossi stata sempre attratta da persone con problemi, con disabilità. Me lo raccontava la mamma, perché io l’avevo completamente dimenticato.
Ti manca qualcosa nel tuo ruolo di mamma?
Come si dice in napoletano: Gesù ti chiude una porta e ti apre un portone e nel mio caso ne ha aperto uno immenso. Mia figlia Teresa è formidabile. Ha 12 anni, ma riesce a gestire il fratello in modo impeccabile. Se esce di casa mi chiama 50 volte per sapere il fratello come sta. Se devo assentarmi per forza e non c’è l’infermiere, lei dice: “Mamma, tranquilla, vado io, non c’è problema. Riesce a fare cambio PEG, cambio cannula, è spaventosa. Più dono di così, che chiedo di più?
Titolo di un film o di un libro per definire tuo figlio
Assolutamente “Die Hard”, duro a morire.